ECOFIN ed EUROGRUPPO, perchè l’Italia deve dire NO al MES

In vista delle riunioni di Ecofin e dell’Eurogruppo del 23 e 24 marzo, molto si è dibattuto sul come fronteggiare la crisi economica e finanziaria derivante dall’epidemia del COVID-19 e del possibile ed eventuale utilizzo di uno strumento quale il Meccanismo Europeo di Stabilità, noto anche come MES.

Il MES è una organizzazione intergovernativa che nasce come fondo finanziario che ha l’obiettivo di aiutare gli Stati della zona euro in difficoltà finanziaria.

E’ dunque uno strumento che, per come è stato concepito, non ha nulla a che vedere con la gestione di crisi come quella della pandemia del COVID-19, finora unica nella sua specie, la cui risposta è demandata principalmente alla banche centrali e che potrebbe richiedere un diverso impegno da parte degli Stati coinvolti.

Il MES nasce, invece, per fornire prestiti a singoli Stati che si trovano in una situazione di crisi finanziaria e nell’impossibilità di accedere al mercato. Circostanza questa che non esiste ad oggi per nessun Paese dell’eurozona.

Attualmente ha un capitale versato di circa 80 miliardi €, di cui 14 miliardi € dall’Italia, e una capacità teorica di prestito inutilizzata di 410 miliardi €.

È uno strumento lento, che ad oggi non dispone dei capitali necessari e che dovrebbe dunque trovarli emettendo obbligazioni oppure richiamando il capitale non versato (nel caso dell’Italia sarebbe un salasso, circa 100 miliardi €).

Ha comunque risorse limitate, non potendo così ricorrere al “whatever it takes” proprio di una banca centrale che può fare da prestatore di ultima istanza oppure fare operazioni di Quantitative Easing per immettere liquidità nel sistema, come fatto dalla BCE con Mario Draghi alla guida negli anni scorsi e come di recente annunciato con lo stanziamento di 750 miliardi di € per far fronte alla crisi del coronavirus.

Il MES, inoltre, presta soldi agli Stati sotto condizionalità molto impegnative (nell’aiuto precauzionale ad esempio  prevista la riduzione del rapporto debito/PIL di 1/20 all’anno fino al raggiungimento del 60% oppure, in quello rafforzato, si prevede la sottoscrizione di un memorandum d’intesa che prevede riforme e tagli nazionali – le famose riforme lacrime e sangue).

Pertanto, il ricorso al MES comporterebbe per l’Italia, oltre di dover restituire con gli interessi i soldi (propri tra l’altro) presi in prestito e dunque ripianare il debito, ma in aggiunta dovrebbero subire riforme fiscali e sociali determinate dal MES stesso in base alla valutazione di rischio del nostro Paese. Per di più l’attuale riforma del MES prevede, oltre il backstop, procedure più veloci per la ristrutturazione del debito con la ponderazione del rischio anche dei titoli di Stato, la cui svalutazione avrebbe pesanti ricadute sui risparmi degli italiani.

Il calo del PIL rischia di essere dell’ordine di centinaia di miliardi e per sostenere il nostro fabbisogno finanziario è sicuramente opportuno l’intervento di una banca centrale che acquisti i nostri titoli incondizionatamente.

Ultimamente si parla anche di coronabond, cioè obbligazioni emesse che dovrebbero comunque essere garantite dai percettori e quindi dai 27 Stati Membri.

Il MES è stato dunque concepito con una logica di intervento per quegli Stati che, in profonda crisi finanziaria, non hanno la possibilità di accedere al mercato e sono insolventi, circostanze che entrambe non riguardano l’Italia.

In definitiva, si tratta di uno strumento per nulla idoneo alla gestione di questa crisi e rivolgersi al MES significherebbe ottenere in prestito fondi che l’Italia stessa ha versato o garantito, con l’unico effetto di imporre all’Italia pesanti condizionalità che segnerebbero il Paese per gli anni a venire.

Ovviamente non possiamo non considerare che gli Stati, i cittadini e le imprese avranno sicuramente bisogno di liquidità e di investimenti per sostenere l’economia reale e far fronte a una crisi che si preannuncia difficile anche se paragonata a quella del 2008 dopo il fallimento della Lehman Brothers.

La crisi dovuta alla terribile epidemia del coronavirus induce piuttosto una riflessione sul ruolo e la dignità che l’Italia dovrebbe recuperare nelle politiche economiche europee, non dimenticando anche che, in quanto contributore netto, ha concesso circa 100 miliardi di Euro all’UE per la politica di coesione negli scorsi 20anni.

La governance e l’impianto finanziario dell’UE non possono continuare essere questi, perché penalizzano fortemente la nostra economia: patto di bilancio e parametri di Maastricht sono diventati ormai camicie di forza che ingessano il nostro Paese e non permettono politiche espansive necessarie soprattutto nei momenti in cui non potendo svalutare la moneta si è costretti a svalutare i salari.

L’UE sta adottando in questo periodo, tramite la Commissione e la BCE, le misure che avrebbe dovuto intraprendere già prima nel corso della gestione ordinaria: sospensione del patto di stabilità, scorporo delle spese dal rapporto deficit/PIL, esenzioni agli aiuti di Stato, QE massivo per creare liquidità (quando necessario).

Prendiamo nota che per la prima volta l’Unione Europea sta mettendo in discussione, pur sempre in un periodo di crisi, le proprie politiche market oriented only, rimettendo al centro lo Stato e i cittadini, ed è questa la strada che si dovrebbe perseguire in futuro.

Ma che non si usi questo momento di crisi per soggiogare qualche Stato con strumenti come il MES, imbrigliandoli per gli anni a venire, con il pretesto del global shock attraverso cui imporre decisioni e politiche diversamente non attuabili in periodi di stabilità.

Si prosegua piuttosto su una linea che rimetta al centro i cittadini, le imprese, lo Stato e l’economia, rivedendo la governance economica europea, il ruolo della BCE e trovando un giusto bilanciamento contro il predominio esclusivo dei mercati sulla persona.

FF

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